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Community Hub: un impianto sportivo “personalizzato” Sono diversi i significati del generale e comunemente accettato concetto di sport. Se da un lato molti ne parlano come di un grande strumento di aggregazione ed inclusione sociale, sostenendo il diritto collettivo al gioco e all’attività fisica, dall’altro viene ancora spesso relegato a mera attività ludica per il tempo libero, separata e ben distinta dal resto delle attività sociali e culturali rilevanti nel processo educativo e formativo dei singoli e della comunità. Crediamo che lo sport svolga un ruolo significativo nei processi di trasformazione sociale: è infatti uno strumento che ha la capacità di valorizzare le potenzialità (non solo fisiche) delle persone che lo praticano ed è, di per sé, un grande dispositivo di coesione sociale, un aggregatore naturale. Lo sport mette insieme popolazioni che hanno diversa provenienza, appartenenza, contesto sociale di riferimento, ma che parlano, comunicano e si ritrovano attorno alla condivisione di una passione e di un interesse specifico. Lo sport contribuisce a creare relazioni e comunità avvalendosi del corpo come ancoraggio imprescindibile per luoghi e territori. In questa sede, la riflessione che proponiamo vuole argomentare come l’attività sportiva, per le sua caratteristiche intrinseche, possa rappresentare un elemento essenziale anche per un ragionamento attorno al tema dei cosiddetti “community hub”. I community hub sono spazi fisici che mettono anzitutto al centro la relazione persone-comunità. Sono spazi dove i desideri, i bisogni e le competenze di ciascuno possono emergere, incontrarsi e aggregarsi, dando vita a nuovi legami e appartenenze sociali a vocazione locale. Sono luoghi in cui si moltiplicano le occasioni di scambio, si intrecciano pratiche di prossimità, si condividono immaginari di futuro: le persone divengono risorsa per i gruppi e le reti di prossimità e, viceversa, i vicinati e le comunità di affinità diventano palestre di capacitazione per le persone. Lo sport rigenera gli spazi e gli spazi abilitano le pratiche sportive. Lo sport dunque al contempo come occasione di coesione sociale e di rigenerazione urbana a partire da un uso più intenso, diversificato, temporaneo tanto degli spazi dedicati allo sport quanto dello spazio urbano più in generale. Pensiamo infatti, e lo abbiamo sperimentato (si veda l’esperienza del progetto Mi Muovo, riportata nei box), che l’attività fisica e motoria praticata in modo diffuso nello spazio urbano, offra possibilità nuove di costruzione e ri-significazione dello spazio pubblico. Con questo contributo vogliamo provare ad argomentare e suggerire un percorso d’azione possibile perchè lo spazio urbano e gli impianti sportivi, opportunamente ripensati, possano trasformarsi in spazi capaci di offrire occasioni di progetto e opportunità di crescita a quartieri e comunità. Gli spazi dello sport, e gli spazi pubblici grazie allo sport, possono diventare community hub selezionando caso per caso le funzioni che possono trovare sede in questi spazi (culturali, ricreative, connesse a servizi di welfare ma anche a spazi commerciali o del lavoro) sulla base delle possibilità e soprattutto delle risorse locali e delle condizioni di contesto; avendo cura di progettare le relazioni che possono legare queste funzioni valorizzandole vicendevolmente. Se le guardiamo da vicino le strutture
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Una mattina di un torrido giorno dell’ultima estate mio figlio di 4 anni mi ha fatto la domanda che speravo non mi facesse mai. Temuta, elusa, rinviata per settimane. Sapevo sarebbe successo. “Papà, ma tu che lavoro fai?”. Una vampa, una breve apnea, prendo tempo per costruire un discorso sensato, ma la prima risposta che mi esce è quella standard. “Faccio il consulente per la sostenibilità delle imprese e delle grandi organizzazioni”. Mi guarda con gli stessi occhi di Carlo, il pesce rosso arrivato dal futuro che rotea se stesso e i suoi occhi nella boccia sullo scaffale della libreria del soggiorno. “Che lavoro fai” è una delle domande che temo di più. Non dite a mia madre che faccio il consulente, lei mi crede pianista in un bordello. Quando il barbiere, o un qualunque interlocutore che fa del discorso forzato parte della propria professione arriva alla questione, di solito evado: a volte consulente (- “Consulente finanziario?” – “Esatto” – “Certo che questa crisi…”), a volte mi occupo di comunicazione (- “Giornalista?” – “Esatto”), una volta sono stato ingegnere ambientale, rischiando grosso perché anche il mio interlocutore lo era e ho pregato non mi chiedesse nulla sull’estimo o la tecnologia dei materiali. Più spesso impiegato, che oltre ad essere tecnicamente vero, è quella professione che riporta all’immaginario collettivo del ragionier Ugo Fantozzi e concede all’interlocutore trenta secondi di superiorità intellettuale. Quando ho rinnovato la carta d’identità, un paio d’anni fa, la signora dell’anagrafe mi chiede: “Che lavoro fai?”, ed io, come al solito tentennando, rispondo “consulente”, lei annuisce, mi stupisce, abbassa la testa sul computer, registra. Mi consegna la carta d’identità, la apro, controllo: Professione: studente. Aveva sentito male. L’ho tenuta così. Ebbene sì, faccio il consulente. Colui che suggerisce, aiuta a costruire, quando è ispirato mostra percorsi nascosti, viene pagato per esprimere un’opinione (di solito circostanziata, motivata e garantita da basi metodologiche). Bene, questa era la parte facile. Consulente di sostenibilità. Figlio mio, la sostenibilità è quella cosa che è talmente naturale e semplice che è impossibile da spiegare. Come l’amore, come la gioia. E’ una questione di buon senso. Agire assumendosi le responsabilità delle proprie azioni e delle relative conseguenze, di fronte a se stessi e di fronte alle persone che ti stanno intorno e che in qualche modo contribuiscono alla tua vita (sarebbero gli stakeholder, ma l’ho fatta breve). Sostenibilità, come il sustain della chitarra: capace di durare nel tempo, capace di futuro (“capace di futuro”, per me una delle definizioni più belle in assoluto). E qui mi aspetto che tu mi chieda “Papà, perché qualcuno ha bisogno di un consigliere per comportarsi bene?”. Ma non me lo chiedi grazie al cielo. Consulente di sostenibilità delle imprese e delle grandi organizzazioni. Qui vengono i casini. Significa, caro mio, che per natura – o per cultura, per il contesto in cui si muovono – alcuni soggetti sono portati a non concepire la redistribuzione (del valore, della ricchezza, delle opportunità, eccetera) come elemento fondante del contratto civico. Significa che il profitto (più che il valore) è ancora saldamente al centro dell’agire
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Essere “vicini al territorio” per molte banche è una specie di mantra, una formula che viene ripetuta all’infinito e diventa quasi un rumore di fondo, al cui significato non si presta più grande attenzione. Del resto, fa brutto dire che si è “lontani dal territorio”, no? Ma che cosa vuol dire, davvero, essere vicini a un territorio? Non basta avere una rete di agenzie? E poi, che cos’è un territorio? Un posto? Un luogo con dei confini definibili? O c’è, in più, un componente sociale che lo identifica? In questi ultimi mesi, abbiamo affiancato Banca Monte dei Paschi di Siena in una sperimentazione che si poneva l’obiettivo di stabilire un processo di ascolto e di relazione con alcuni stakeholder locali, partendo da una valutazione dell’attività della banca in un ambito geografico determinato. Per un primo pilota, è stata individuata l’area delle tre provincie del sud delle Marche (Ascoli, Fermo e Macerata). Dopo una validazione del metodo, l’esperimento è stato ripetuto sulle due province umbre. Il progetto si è articolato lungo due direzioni: l’elaborazione di un bilancio sociale di territorio e l’organizzazione di un confronto facilitato con alcuni rappresentanti degli interessi economici e sociali. Il bilancio sociale di territorio consiste in un esercizio che, sulla base di indicatori economici e sociali specifici del territorio di riferimento, cerca di derivarne una caratterizzazione delle esigenze di famiglie e imprese e poi le mette in relazione con il sistema di offerta di servizi finanziari e non finanziari della banca. Il documento riporta poi informazioni anche qualitative sulle attività della banca e dà conto del suo impegno in un arco temporale di circa tre anni. L’obiettivo, evidentemente, è quello di capire se la banca stia effettivamente rispondendo ai bisogni della clientela (attuale e potenziale) e se esistano dei punti di miglioramento evidente. Il bilancio sociale di territorio, in forma di bozza, è stato presentato a un gruppo di circa venti stakeholder selezionati, nell’ambito di un incontro a porte chiuse, guidato da un facilitatore indipendente. La banca si è posta in una posizione di ascolto e ha raccolto le indicazioni del workshop, impegnandosi a prenderle in considerazione nella propria attività, a partire dalle settimane successive. Dopo il workshop, è stato organizzato un incontro aperto a tutta la cittadinanza, in cui gli stessi temi sono stati presentati e discussi con un pubblico più vasto. L’elemento di interesse del progetto è nel tentativo di applicare il processo della teoria del cambiamento (input – output – outcome – impact) a un livello micro. Questa scala di analisi consente di circostanziare la qualità sia della domanda sia dell’offerta in termini molto più precisi e quindi di individuare una corrispondenza tra bisogni e risposte in modo estremamente concreto. Mai come in questo caso, ci siamo confrontati con la dimensione “reale” della CSR, cioè sulla misura in cui un’organizzazione grande riesce ad adattarsi ad aspettative molto specifiche. Magari questo non ci consente di dire che abbiamo trovato una risposta definitiva alla domanda che cosa significhi essere una banca di territorio – ma certamente adesso abbiamo le